Inaugurazione della Mezzaluna Rossa Kurdistan a Livorno

locandinaPubblichiamo un bel resoconto scritto dal Circolo Agorà di Pisa sulla serata di presentazione della Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus, svoltasi sabato 17 gennaio 2015 al Nuovo Teatro delle Commedie a Livorno.

  Livorno, 18 Gennaio 2015.

In tanti ieri sera ci siamo ritrovati al nuovo teatro delle commedie di Livorno per l’inaugurazione della Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus, una diramazione nazionale di Heyva Sor a Kurdistanê, la più grande organizzazione umanitaria per il Kurdistan, attiva in Germania dal 1993.

La sede italiana dell’associazione nasce proprio a Livorno da un gruppo di cittadini e cittadine Curdi e Italiani con lo scopo di organizzare in Italia iniziative di sensibilizzazione e raccolte di fondi da destinare alla campagna internazionale di solidarietà con il popolo Curdo, particolarmente urgenti in questi mesi in cui le popolazioni del Kurdistan siriano, con i loro esperimenti di autogoverno democratico, sono impegnate in una strenua resistenza contro il pressante assedio dell’ISIS.

Come puntualizzato dal direttivo dell’associazione l’idea che fa da fondamenta all’iniziativa è quella di portare avanti attività che abbiano come scopo la difesa di valori e principi universali, portare assistenza gratuita da discriminazioni di ogni tipo per alleviare la sofferenza umana laddove essa sia presente, in Kurdistan come altrove, dando come precedenza sia aree di guerra che luoghi che risentono degli effetti causati dalle guerre, zone colpite da calamità, e aree di povertà in qualsiasi nazione o regione.

I membri del direttivo presenti in sala questa sera erano Alican Yldiz, Barbara Mancini, e Şevda Sunmez. In un video realizzato appositamente per il lancio dell’inaugurazione da Filippo Del Bubba (autore anche di una galleria fotografica della serata) è possibile vedere e ascoltare da loro stessi che cosa li ha mossi nel percorrere questa strada:

La presentazione dell’associazione è stata moderata da una brillante ricercatrice universitaria di Diritto internazionale all’università di Pisa e studiosa del confederalismo democratico: Martina Bianchi. Ricercatrice che – come lei stessa si definisce – per il momento ancora riesce a “sopravvivere” e fare ricerca all’interno dell’università italiana.

Martina ha successivamente introdotto anche gli altri ospiti della serata: Yilmaz Orkan, presidente dell’Ufficio Informazione Kurdistan (UIKI), associazione che fin dalla sua nascita si occupa soprattutto di rendere nota la questione curda sia in Kurdistan che in Europa fornendo documenti sulla repressione, la discriminazione e la guerra contro il popolo Curdo nei quattro paesi in cui il Kurdistan è stato diviso nel 1923 con il Trattato di Losanna, dove il popolo Curdo è stato separato e costretto a subire gravi forme di discriminazione ed esclusione.

A seguire l’intervento di Vahdettin Kilic, vice presidente dell’associazione Heyva Sor a Kurdistanê in Germania a cui Erdal Karabey, presidente dell’Associazione culturale Kurdistan, si è gentilemente prestato nel ruolo di interprete.

L’anno 2014 è stato infatti uno dei più difficili per l’associazione Heyva a Kurdistanê. L’attacco del califfato islamico e delle milizie DAISH (da noi comunemente note come ISIS)  ai danni di Curdi, Assiri, Cristiani e Turkmeni nelle città di Şengal e Kobanê in Rojava, ha peggiorato enormemente quello che già era una delle crisi umanitarie più grandi del mondo. Sono stimati in numero di 400’000 i Curdi costretti a fuggire da Kobanê dall’avanzata delle milizie ISIS che soltanto un mese prima, nell’agosto 2014, avevano forzato mezzo milione di Curdi Yazidi a lasciare Şengal. Tutte queste vittime vanno ad aggiungersi ai 3 milioni di rifugiati dalla guerra civile siriana e ai quasi due milioni di profughi causati dall’intervento dell’ISIS in Iraq.

Erdal Karabey conclude con un intervento appassionato. Condannando l’attentato alla libertà di espressione che solo pochi giorni fa ha colpito la Francia, e affermando che la stessa identica cosa capita da anni a milioni di persone nel Kurdistan, dove la libertà di espressione è oltraggiata oltremodo, tanto che non ci si può addirittura “esprimere” nella propria lingua, “esprimere” la propria cultura. Come per provocarci, si rivolge quindi al sindaco Nogarin presente in sala dicendogli:

 “Signor Sindaco Nogarin, i suoi colleghi Curdi sono ancora in carcere!”.

Nel dramma di Parigi, continua Erdal, sono morte tre donne Curde. Afferma che la religione non ha spazio in quello che sta accadendo. Parla di geopolitica, di Erdogan e del Qatar, e di tutti coloro che si sono dimenticati del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), ovvero di tutti quegli uomini e donne che hanno difeso indistintamente tutti quanti dall’aggressione fascista dell’ISIS. Il PKK ha difeso tutti: Armeni, Turkmeni, Curdi, Assiri e Cristiani, al di là di ogni religione ed in assenza di quel fantomatico esercito americano accorso sul campo maldestramente ed in ritardo.

A seguire, introdotta dalle parole di Martina Bianchi, è stata l’illustrazione del progetto di convivenza della regione che nel 2012 è partito nel Rojava. In quell’anno i tre cantoni di Afrin, Jazira e Kobanê cominciarono ad intraprendere un esperienza di autogoverno basata su di un avanzato patto sociale di civile coesistenza tra popoli. In tale costituzione i concetti espressi vanno ben oltre il nazionalismo. Il Kurdistan infatti non reclama l’autodeterminazione di uno stato-nazione. Quel che si voleva e che si continua a volere è una pacifica convivenza, un pluralismo democratico avanzato che si evince dalle parole  stesse della sola prefazione della carta del loro contratto sociale (http://www.uikionlus.com/carta-del-contratto-sociale-del-rojava-siria/):

Prefazione della carta del contratto sociale del Rojava (2012)

Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobanê, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta.

Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli.

Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale.

Con questa Carta, si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione, verso una nuova società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale.

A conclusione dei tre interventi anche il Sindaco di Livorno Filippo Nogarin prende la parola. Porta avanti un intervento a braccio che esprime piena solidarietà dell’istituzione al progetto umanitario e rivolge un appello alla necessità di informazione:

“… non vorrei che passasse come di secondaria importanza rispetto alla diffusione culturale, la diffusione delle informazioni di quello che realmente accade in questi territori. Spesso gli strumenti adoperati da chi compie violenza sono quelli di oscurare completamente ogni forma d’informazione. Questa è infatti una tecnica che da sempre è stata utilizzata nel corso della storia. Penso che il nostro sia un primo passo per capire, per accendere un riflettore su chi reclama il diritto alla dignità – come diceva giustamente Martina. Credo che in questa direzione dobbiamo collaborare, non soltanto con gli aiuti umanitari, che sono ovviamente fondamentali, ma con la diffusione di quello che accade. È questo un po’ il senso generale: Riuscire a mantenere un rapporto di vera fratellanza nel rispetto totale della lingua, della cultura, il nome del popolo, e di tutto quel bagaglio di unità che giustamente state rivendicando. Non dimenticando però che tutto questo è un patto integrante ad un percorso ancora più ampio, che è quello di una profonda fratellanza. Torno a porre attenzione su questo aspetto. Perché se è vero che ci troviamo ancora una volta di fronte ad una situazione di emergenza, io credo che si debba dimostrare che queste cose non accadranno più nella misura in cui si operi nella loro prevenzione. La prevenzione è un percorso che va nella direzione dell’integrazione vera e totale di tutti i popoli.  Questo è secondo me l’obiettivo, forse utopico, perché non sarà certo il sindaco Nogarin a cambiare il corso della storia che da sempre purtroppo va verso la divisione. Però ci dobbiamo ancora provare con tutte le nostre forze. Lo faremo con quello che sarà nelle nostre possibilità, che sono comunque di una città importante che è crocevia di tolleranza. Sono onorato di dire che anche questa volta si parte da Livorno come simbolo di fratellanza. Spero vivamente che continueremo oltre agli aiuti umanitari a far si che ci sia possibilità di avere informazioni, e di avere voce per diffonderle nel mondo, perché questo è forma altissima di democrazia.”

Gli ultimi due interventi sono di Ivan “Grozny” Compasso, giornalista freelance autore di un recentissimo reportage per La Repubblica su Kobanê ed Alberto Mari, membro della delegazione italiana nei campi profughi del Kurdistan iracheno.

Il giornalista Ivan Compasso argomenta emotivamente. Parla di confini non come linee di delimitazione da difendere, ma per quello che sono veramente: “un vero e proprio limite mentale dei popoli che ci vivono all’interno“. Parla entusiasticamente della resistenza di Kobanê, così come parla con preoccupazione del terrorismo mediatico usato dall’ISIS, di quanto inquieti il fatto che nelle sue file ci siano molte persone che vengono proprio dall’europa.

Dice di sapere quanto possa essere brutto vedere un popolo come quello Curdo dove uomini e donne sono costretti ad imbracciare un fucile, ma allo stesso tempo dice essersi profondamente convinto che: “il pacifismo se lo può permettere solo chi comanda“. Polemizza sulla Turchia di Erdogan, di come sia possibile che un paese membro della NATO non sia in grado di aprire un corridoio umanitario per Kobanê. Parla di come i militanti dell’ISIS, sebbene combattutti, vengano comunque rispettati. Vengono perquisiti, catalogati e seppelliti sia per ovvie motivazioni legate all’igiene, ma  anche per compassione umana. Si pensa infatti che sia giusto che in un futuro i parenti possano sapere dove sono seppelliti i loro cari. Alla domanda della moderatrice riguardo alla presenza o meno sul territorio di milizie internazionali per difendere Kobanê, Ivan risponde dicendo che: “a Kobanê è difficile sia entrare che uscire“. Non ha notizie della presenza o meno di milizie internazionali, ma pare corra una leggenda di un invincibile combattente tedesco presente sul territorio. Lui dice di non sapere se questa notizia sia vera oppure no, tuttavia i combattenti dell’ISIS hanno paura di questa specie di “Rambo” teutonico, e a lui piace pensare che possa esistere davvero.

Alberto Mari inquadra la situazione in modo chiaro e deciso. Vede un popolo che strenuamente resiste a tutto quel che l’occidente ed i suoi grandi cuochi del novecento hanno preparato per loro.  Quei confini scellerati li ha infatti tracciati la nostra prima guerra mondiale. “Occorre rifarsi alla storia,” dice Mari, “alla memoria, per far si che anche l’origine dei conflitti possa essere portata chiaramente alla luce”. Queste volute e dolose dimenticanze di memoria storica sono evidentemente anch’esse un limite di noi paesi occidentali. Prosegue illustrando la solidarietà tangibile e l’umanità delle popolazioni che vivono in quelle aree. Negli ultimi due anni infatti nella Rojava la pratica della “democrazia” radicale (autogoverno dal basso) nelle assemblee territoriali, il protagonismo delle donne, e il riconoscimento della pluralità del movimento hanno gettato le basi per una rivoluzione sociale. Processi di questo tipo che avvengono in aree di povertà e disagio causate da forze esterne, possono solo essere considerati da noi popoli occidentali “come un esempio da ammirare“.

L’unico neo è stato il limitato spazio per l’intervento del pubblico in sala. Il tempo non è stato sufficiente all’instaurarsi di un vero e proprio dibattito. Forse è anche per questo che realtà di antagonismo sociale presenti in città ed in sala non sono intervenute. Probabilmente ci si è trovati ad essere troppo vicini all’ottima cena tradizionale offerta dalle comunità curde di Cecina, Pontedera e Firenze.